Europa… l’incipit

Capitolo Uno

Sono seduto non proprio al centro del lungo sedile in fondo a un moderno pullman in viaggio per l’Europa. E questo di per sé è straordinario. Perché io odio i pullman, li ho sempre odiati, e soprattutto odio i pullman moderni, non solo per la puzza intensa e nauseabonda di plastica e tappezzeria sintetica, ma per come tutti – e nella fattispecie il sottoscritto – siano costretti a sorbirsi i presunti desideri della maggioranza sotto forma di schermi televisivi collocati più o meno ogni sei sedili alla base del portabagagli, nonché ovviamente di musica che filtra da invisibili altoparlanti. Tanto che perfino mentre lasciamo Piazza dell’Università per incanalarci in Corso Vercelli nel traffico mattutino di questa strana città dove vivo da tanto tempo, una città d’asfalto di tram di nobili facciate e di marocchini che vendono sigarette di contrabbando poggiate sul marciapiede e riparate dagli ombrelli – perché piove, come sempre a Milano a maggio – perfino adesso, prima che il lungo viaggio sia davvero cominciato, ci tocca ascoltare la voce tronfia di uno che canta con raucedine fasulla e compiaciuta di un amore passionale che non può, sostiene, dimenticare, e che gli ha rovinato per sempre la vita, come dire l’ultima cosa che vorresti sciropparti poco dopo le otto di un lunedì mattina, e non molto dopo il tuo quarantacinquesimo compleanno. Anche se vari fra i passeggeri più giovani cantano in coro (al pari, immagino, delle reclute di primo pelo dirette al fronte).
Già, che fosse un errore, rifletto, seduto un po’ a destra rispetto al centro del lungo sedile in fondo a questo pullman moderno che si dispone ad attraversare l’Europa, che fosse un grave errore partecipare a questo viaggio, l’ho capito chiaramente non appena ho dato la mia adesione, forse prima ancora, ammesso che sia possibile. O meglio, nel preciso istante in cui ho preso questa decisione ho anche riconosciuto, e ho riconosciuto di averlo sempre riconosciuto, che partecipare a questo viaggio era uno di quegli errori che ero destinato a commettere. E’ un errore che eri destinato a commettere, ho pensato. Con questo naturalmente non intendo equipararlo agli errori più grossolani e macroscopici che hanno plasmato quella che posso definire senza mezzi termini come la mia vita, ma soltanto che, dopo aver accettato, su richiesta di un collega, di aggiungere il mio nome a un elenco di altre firme di altri colleghi, mi sono subito accorto che si trattava proprio del genere di errore squallido, assurdo e ostinato che un tipo come me è portato a commettere. E’ nel tuo stile fare certe cose, mi sono detto. Accetti di spararti dodici ore di pullman in una direzione e poi, due giorni dopo, altre dodici ore con lo stesso pullman (un pullman moderno per giunta, con la musica querula e i video e la puzza di sintetico) nella direzione opposta, allo scopo di prestare il tuo nome, per quanto può valere, a una causa che non solo non appoggi, ma che, da un punto di vista puramente intellettuale, ammesso che un simile miracolo esista, osteggi, tu la osteggi, e questo, come se non bastasse, per presentare un’istanza a un’istituzione che ancora una volta non solo non appoggi, non sottoscrivi in alcun modo, ma che spesso pensi non dovrebbe nemmeno esistere. E’ nella tua natura comportarti così. E cercando di trovare una posizione comoda per la testa su un poggiatesta di nylon spazzolato in fondo a questo grande pullman al momento bloccato a un incrocio nonostante il semaforo verde, torno a riflettere sul fatto che quando, e parliamo dell’inizio di aprile, Vikram Griffiths mi ha detto, schiarendosi la gola e sfregando le dita sulla lucida pelata indiana, come fa sempre, o sulle basette, o nel cespuglio di peli dietro il grosso collo, per poi aggiustarsi gli occhiali, come sta facendo in questo preciso istante poco più avanti nel passaggio centrale di questo odioso pullman moderno (e intanto si appoggia spudoratamente, con il cane che gli mordicchia le caviglie, alle spalle e senza dubbio al seno di una ragazza), gesti dettati si suppone dal nervosismo e dal desiderio di dare l’impressione che quanto va dicendo è interessante e stimolante – forse è a un nervosismo di tipo teatrale che mi riferisco, un nervosismo diventato consapevole di se stesso e strumento di se stesso nell’ambito di un narcisismo infinito e autodistruttivo ma sempre coercitivo – quando Vikram Griffiths mi ha detto, ingoiando il catarro, ma senza il cane quel giorno: Jerry boyo – perché Vikram non è soltanto un indiano, è un indiano gallese, l’unico indiano, a sentir lui, che abbia mai parlato gallese – Jerry boyo, vogliamo presentare un’istanza all’Europa – schiarendosi di nuovo la gola – e il tuo appoggio sarebbe molto gradito, quello che avrei dovuto fare, ovviamente, era ridergli in faccia, o reagire in modo più educato ma altrettanto esplicito, per esempio chiedendogli: All’Europa? o semplicemente: A chi, scusa? come se davvero non conoscessi l’esistenza di una simile entità.
Avrei dovuto rifiutare. Era tutt’altro che impossibile, perfino per uno che notoriamente vive da solo e conduce un’esistenza quasi esente da impegni professionali, trovare qualche scusa legata a uno dei tre giorni che avrebbero visto proprio questo moderno pullman macinare una serie interminabile di chilometri di autostrada e di autoroute per presentare il nostro caso all’Europa. Era tutt’altro che impossibile. E invece non solo non ho rifiutato, ma ho colto la palla al balzo. Ho detto di sì su due piedi. Non solo non ho cercato una scusa per risparmiarmi questo pellegrinaggio sfiancante e, ho il sospetto, ipocrita, ma ho bellamente ignorato l’ottima scusa che in realtà mi si offriva, e cioè la festa per il diciottesimo compleanno di mia figlia che si terrà domani pomeriggio, quando la mia assenza sarà sicuramente oggetto di aspre critiche. E non solo, rifletto, mentre sento il grosso motore del pullman vibrare sotto il sedile – e quello che cerco di fare, credo, è prendere il toro, e che toro, saldamente per le corna – non solo ho accettato su due piedi, e con questo intendo senza rifletterci un solo istante, d’impulso, per così dire, ma mi sono fatto in quattro per rendere la mia adesione cordiale e addirittura amichevole. Ho detto: Come no, Vikram, certo che vengo, e ho firmato su due piedi e su due piedi, senza riflettere, ho portato la mano alla tasca e ho sfilato il portafoglio nuovo comprato da poco, al pari di varie altre cosette di natura vagamente personale comprate di recente, e ho pagato su due piedi (cosa tutt’altro che necessaria) le duecentoventimila lire previste per il viaggio, una cifra che francamente, dato lo stato attuale delle mie finanze, non potrei permettermi. Non te lo potresti permettere, mi sono detto. Anche se devo dire che ultimamente i soldi mi fanno l’effetto di una valuta che non vedi l’ora di far fuori prima di andare in un altro paese, una valuta che per un bel pezzo non varrà un bel niente, e l’idea di cambiarla non ti sfiora nemmeno.